A CENA CON ARNALDO
 5 ottobre 2006
 
Non mi ricordo dove l'ho conosciuto, sicuramente molti ma molti anni fa, lui sempre educatissimo, riservato, l'ho visto al fianco di tantissimi piloti, tutti fortissimi, l'ho visto seguire freneticamente le assistenze Lancia sempre attaccato a Cesare Fiorio come un'ombra, l'ho visto poi seguire il trofeo SEAT

con la stessa passione e professionalità, lui Arnaldo Bernacchini ora viene spesso alla mia scuola ad insegnare ai giovani debuttanti l'arte del rally, la magia delle note per la quale ha dedicato tutta la sua vita con un entusiasmo veramente fuori dal comune.
Chi non si ricorda i mitici equipaggi, Ballestrieri Bernacchini, Pinto Bernacchini, Munari Bernacchini, Verini Bernacchini fino a Vudafieri, Bettega o Zanussi ed ora... Galli Bernacchini, già non fate confusione però, quest'ultimo è il figlio Giovanni, come nelle tradizioni più antiche il padre insegna l'arte al figlio, come una volta si insegnavano i mestieri più difficili, lui ha voluto tramandare con successo l'arte al figlio, la sua passione sconfinata, un vero amore per la specialità più bella del mondo, il rally.

Lo stavo fissando l'altra sera a cena, è sempre lui uguale a sempre, la barba un po' più bianca qualche capello in meno e forse qualche chilo in più, ma dai suoi occhi lampeggiano ricordi, immagini che solo lui ha potuto vedere. Parlavamo come sempre a ruota libera e così ho deciso così di scrivere qualcosa su di lui, qualche flash di storia raccontato al volo, davanti ad una bistecca e ad un bicchiere di vino.

Quella volta con Lele (Pinto) eravamo in Finlandia, lui non aveva mai misure andava sempre a chiodo, ti giuro che certi passaggi come li faceva lui non li faceva nessuno, aveva una classe come pochi, durante le ricognizioni ci fermammo ad osservare un grande salto e ad un certo punto esclamò convinto “Questo lo facciamo in pieno”. Allora a quei tempi non c'erano problemi durante le ricognizioni e tornammo rapidamente indietro lo spazio sufficiente per affrontarlo a palla.
Quando ci alzammo in volo guardai fuori dal finestrino e vidi la strada come in una veduta aerea, larga come una lasagna, atterrammo di muso con un fragore impressionante, una botta da far paura, la povera 124 Abarth era piegata a metà con le portiere aperte, sembrava un aereo abbattuto, pezzi dappertutto, distrutta, non era da fare in pieno...

Ad Arganil in Portogallo nella nebbia fittissima il Lele riuscì a scaricare la quinta, non si vedeva nemmeno il cofano della macchina ma lui ci spiattellò la quinta, neanche da credere, vincemmo la gara con un bel margine, fu davvero un capolavoro, solo lui sapeva fare queste cose.
Durante i test fece salire un ingegnere della Corte e Cosso, avevamo dei grossi problemi di ammortizzatori e la ditta costruttrice ci mandò un tecnico per cercare di risolverli.
Appena arrivato su da noi dopo un trasferimento inimmaginabile, iniziò a raccontare di aver girato in pista con Tizio Caio e Sempronio tutti piloti ben conosciuti a quei tempi nell'ambiente del turismo su pista, quasi snobbava i rally e ci guardava un po' dall'alto al basso (è sempre molto riservato Arnaldo) ad un certo momento chiese di poter vedere da dentro il comportamento della macchina, non aspettavamo altro, il Lele entrò come sempre con un po' di fatica ma quando lo guardai in faccia capii subito che il povero ingegnere ne avrebbe sicuramente visto delle belle, lo aiutai a serrare bene le cinture mentre Lele mi guardava con quel suo sorrisino più che sarcastico.
Partì come una freccia e lo vidi entrare nella prima curva come sapeva fare solo lui, il rombo della 124 rosa e verdino sparì nella foresta tra una nuvola di pietre che volavano dappertutto.
Alcuni minuti dopo riapparve ancora più forte di com'era partito fermandosi di traverso davanti al furgone della Fiat. Mi precipitai ad aprire la porta per far scendere il pietrificato ingegnere, questi ovviamente era imbalsamato sul sedile e solo quando scese dopo diversi minuti, ci accorgemmo che se l'era fatta letteralmente addosso era bagnato fino alle ginocchia. Non parlò più della pista e dei suoi ormai ex idoli ma non solo, azzeccò anche la preparazione degli ammortizzatori tanto che la macchina vinse la gara.
“Ho capito il problema... ho capito...” continuava a borbottare con i pantaloni fradici, fu portato subito in albergo per cambiarsi...

Il Drago invece era un altro tipo di personaggio, tranquillo, preciso addirittura matematico, lui fu il primo pilota professionista col quale corsi, un grande guidatore, una classe fuori dal comune.
Mi ricorderò sempre con Sandro alla fine del '70, c'era un rally di campionato europeo e a quei tempi le ultime gare del campionato erano aperte anche ai prototipi in modo da poter dar modo alle case di sviluppare le vetture per la stagione successiva. Fiorio e Maglioli si inventarono una versione della Fulvia “barchetta” la F&M. Presero il traliccio anteriore della Fulvia e il ponte dietro con le balestre e le attaccarono tra loro con un telaietto, mettendoci in mezzo l'abitacolo fatto con quattro tubi di alluminio, il tutto completamente senza tetto solo con un piccolo parabrezza di plastica alto pochi centimetri, la macchina ovviamente pesava molto meno della Fulvia e poteva in questo modo reggere anche se con fatica il confronto con le Alpine Renault che a quei tempi erano imbattibili, il problema era però rappresentato dalla stagione avanzata, la fine di novembre e dalle temperature molto basse che si registravano nella sierra attorno a Madrid. Di riscaldamento nemmeno a parlarne pesava troppo, ci furono messe addosso delle tute da discesa libera, quelle che si usavano per il chilometro lanciato, figuratevi in caso di fuoco cosa sarebbe successo. Si partiva da Madrid nel pomeriggio inoltrato, già era un freddo bestiale, ma nonostante questo nella prima prova diamo due secondi a Nicolas con l'Alpine, figurati mai era successo che in velocità pura andassimo più forte delle vetture dell'armata blu, se le battevamo le battevamo sull'affidabilità.

Io ero coperto, imbottito con giacca e scarpe pesanti, ma Sandro no, non avrebbe potuto guidare imbacuccato come ero io, nonostante sotto avesse la famosa tuta da chilometro Lanciato il povero drago era congelato, qualche volta arrivavamo con largo anticipo al c.o. E ci toccava aspettare all'aperto il nostro turno guardando gli altri che se la ridevano rinchiusi nel loro abitacolo con il riscaldamento acceso. Verso la metà della tappa alle due di notte il drago mi disse “Io mi fermo tu scendi e apri il cofano finchè non ci vedono tre quattro macchine dietro” Ci fermiamo per fare questa messa in scena e gli dico “Drago... ma poi ripartiamo vero?”
“Arnaldo guarda la carta e dimmi la strada più rapida per andare in albergo” rispose quasi balbettando.
“Come in albergo almeno andiamo in assistenza”
“Nooo in assistenza no, là c'è Cesare (Fiorio) io so com'è lui ci convince, ci mette una sciarpetta e ci fa ripartire... Ci fa bere un punch caldo e ci rimanda via, nooo per carità! Hai capito bene Arnaldo andiamo a casa perchè qui ci facciamo del male, non sento più le mani e i piedi è pericoloso”
Perchè il drago dicesse una cosa del genere la faccenda doveva essere davvero grave.
“Ci facciamo del male” continuava a ripetere...
Quando arrivammo in albergo il drago si bevette perfino due o tre cognac e proprio in quel momento suonò il telefono.
“Come dove siamo... Siamo in albergo Cesare c'è da farsi del male”
Così finì la storia dell'anti-Alpine.

Nel '71 con Amilcare (Ballestrieri) partimmo per il Montecarlo da Marrakesh alle 10 di sera del venerdì sotto il crepitio di fucileria di un manipolo di fucilieri Berberi e Balestra convinto mi fa
“Belin scappiamo che ci sparano”, l'avvicinamento era lungo 2.800 km e il primo settore da Marrakesh a Tangeri 700 km da fare a 100 di media. Tre giorni solo per andare alla partenza della gara fino a Roen (non so se si scrive così) sopra Nizza dove arrivammo alle 4 del mattino del lunedì e da lì senza sosta la prima prova fino a Pont de Miolans che era di “soli” 50 km.
Poi un'altra prova al col de Perty e poi via verso l'Ardeche distante 300 km. Su strada normale, non finiva mai.
Durante la marcia di avvicinamento nel deserto tunisino, dovevamo passare delle montagne dove avrebbe potuto esserci della neve e fummo costretti a mettere delle ruote chiodate di scorta in una bagagliera sul tetto.
Immagina la tappa fino a Tangeri a 100 di media con quelle strade, di notte e con la Fulvia che non faceva più di 140 con i rapporti corti che aveva, come unico comfort ci avevano messo dei sedili ribaltabili e a turno una vettura andava davanti e le altre due (Munari Mannucci e Barbasio Sodano) che seguivano mentre a bordo si dormiva a turno, per quello che si poteva con il rombo infernale della Fulvia.
Ad un certo momento sento degli scricchiolii provenire dal tetto, “Amilcare fermati che perdiamo la bagagliera” tirai fuori la mia borsettina che avevo sempre con me. Ah! Una volta me la vide Cesare e me la buttò in un prato perchè la giudicava pesante, era un maniaco del peso.
Insomma iniziai a riparare il portapacchi in pieno deserto al buio e mentre torcevo il fil di ferro spiegavo ad Amilcare quello che stavo facendo sentendo la sua presenza dietro a me, ma ad un tratto girando l'occhio vidi Amilcare da tutt'altra parte che stava facendo la pipì, momento di terrore, mi girai e vidi uno con un nasone e con il turbante a pochi centimetri da me, tirai un urlo e un salto che quasi saltai via l'automobile, Amilcare più spaventato di me si mise a gridare “Belin cosa succede uehh cosa c'è... Belin!” e intanto quello, più spaventato di noi correva via nella notte sventolando la palandrana tipica degli abitanti del deserto.
Da dove fosse spuntato in mezzo a quel deserto nessuno la sa ma ci prendemmo mezzo infarto noi e anche lui.
Sempre quella volta finimmo le ricognizioni con le prove dell'ultima notte, poi si tornava a casa qualche giorno e ci si preparava per la gara, tutti avevano voglia di finire le prove anche perchè era un bel po' che si girava, Amilcare stava caricando le valigie ma aveva un comportamento piuttosto strano, il muso lungo. “C'è qualcosa che non va ?”
“No no tutto a posto” continuava a ripetere.
Dopo varie insistenze alla fine mi sputò tutto in un fiato.
“Ho un dubbio al Moulinon, non sono sicuro di un passaggio”
Il Moulinon distava almeno 400 km dal Turini e tutti di strada normale tranne un pezzetto sopra a Montecarlo, costo dell'operazione almeno un giorno intero.
“Va beh andiamo al Moulinon” gli dissi senza fare una piega e partimmo, muletto valigie e tutto sopra.
Ci mettemmo una vita e quando arrivammo sul posto, si guardò per bene il suo “dubbio” poi senza tanti problemi ce ne tornammo a Sanremo per poi ripartire quasi subito per Marrakesh in aereo da Torino e iniziare un rally che durava dieci giorni.

La bottiglia era ormai vuota, i suoi occhi brillavano ancora e nelle sue pupille rivedevo quelle scene magiche di un tempo ormai talmente lontano e leggendario da sembrare mai esistito, mi sono sentito un bambino che ascoltava le favole del nonno, rivedevo le magiche scritte Lancia-Italia sul cofano delle vetture che mi avevano fatto avvicinare, sognare e poi abbracciare i rally.
Grazie Arnaldo a nome di tutti i veri appassionati.